Tuesday 30 December 2025 - 17:09
Schizofrenia ontologica: la normalità come patologia epistemica

La schizofrenia ontologica non è una patologia individuale, ma la condizione ordinaria del soggetto moderno: vivere dentro la frattura tra realtà e rappresentazione senza più riconoscerla. La psichiatria cura i crolli, ma non interroga la struttura che li rende inevitabili. La vera anomalia non è il delirio clinico, bensì una società che scambia la cecità per lucidità e la ripetizione per realtà.

Agenzia Hawzah News – La schizofrenia viene comunemente definita come “perdita di contatto con la realtà”. Questa definizione non è falsa, ma è epistemicamente miope. Presuppone che esista un rapporto ordinario, sano e condiviso con la realtà, dal quale alcuni soggetti devierebbero. È proprio questo presupposto a essere teoricamente infondato. La perdita di contatto con la realtà non è un’eccezione clinica: è la condizione ordinaria del soggetto moderno. La clinica interviene solo quando questa condizione perde adattività e diventa ingestibile.

L’esperienza contemporanea è strutturalmente mediata da linguaggi, modelli, narrazioni e concetti che non vengono più riconosciuti come tali. Le rappresentazioni non rimandano al reale: lo sostituiscono. Il concetto prende il posto della cosa, il senso prende il posto del fatto, la spiegazione prende il posto dell’essere. Questo slittamento non è una necessità ontologica inevitabile, né uno scarto innocente: è ignoranza epistemica strutturata, insipienza cognitiva istituzionalizzata, esito di una cultura che addestra all’adesione cieca ai significati, invece che alla loro sospensione critica. In questo senso rigoroso, non metaforico, siamo tutti schizofrenici: non in senso clinico, ma in senso ontologico.

Questa condizione diffusa può essere descritta come schizofrenia ontologica: vivere stabilmente all’interno di una frattura non tematizzata tra realtà e rappresentazione, tra essere e concetto, tra fatto e senso, assumendo i propri costrutti simbolici come immediatamente reali. Non si tratta di una patologia mentale mascherata né di un deficit naturale, ma del prodotto di una mancata formazione alla distinzione, alla sospensione del giudizio, alla revisione delle convinzioni.

La tradizione filosofica lo ha sempre messo in luce. Nietzsche, con la sua autoproclamata “morte di Dio”, ha lasciato il pensiero privo di fondamento, consegnato a interpretazioni che si credono verità. Heidegger ha denunciato l’oblio dell’essere, la sostituzione dell’essere con l’ente e la riduzione del reale a rappresentazione tecnica. Foucault ha mostrato come la clinica non scopra un’anomalia, ma istituisca la distinzione tra normale e patologico. Lacan ha tematizzato l’alienazione originaria del soggetto nel linguaggio. Tutti, in modi diversi, hanno colto la frattura tra realtà e rappresentazione, tra essere e concetto, tra fatto e senso. Ma proprio nel loro modo di tematizzarla hanno finito per conferirle una legittimazione di fatto, trasformandola in destino storico. Nietzsche ha reso inevitabile l’interpretazione come verità, Heidegger ha accettato l’oblio come cifra epocale, Foucault ha naturalizzato la genealogia dei dispositivi, Lacan ha istituzionalizzato l’alienazione come struttura del soggetto. Invece di aprire la via a una vera sospensione critica, hanno contribuito a consolidare la schizofrenia ontologica, aggravandone il progresso storico e naturalizzandone l’invisibilità strutturale.

È stato, a ben vedere, un olocausto intellettuale storico: filosofi che, illudendosi di poter risolvere tutto con la mente, hanno finito per sacrificare la realtà del pensiero, trascinando l’umanità in un maniacale radicamento nell’eutanasia intellettuale e spingendo la frattura fino all’abisso estremo che avrebbero dovuto colmare e disinnescare.

Questa legittimazione di fatto ha dunque preparato il terreno alla sua stabilizzazione come condizione sociale diffusa. La schizofrenia clinica non nasce infatti nel vuoto: è l’esito pato‑ontologico di una frattura già presente e resa invisibile dall’autorità dei concetti. La differenza tra il soggetto socialmente normale e quello clinicamente diagnosticato non è di natura, ma di grado: una rigidità e un’incorreggibilità epistemica che, perdendo flessibilità, incalliscono fino a diventare insostenibili.

E per “incorreggibilità” non si intende né un’impossibilità logica né una colpa morale, bensì una resistenza sistemica alla revisione delle convinzioni, anche di fronte a evidenze condivise e a un confronto intersoggettivo. Ciò che nella vita ordinaria rimane tollerato — la reificazione del concetto, l’identificazione identitaria con le proprie narrazioni, la difesa affettiva delle proprie rappresentazioni — nella schizofrenia clinica perde ogni flessibilità adattiva: diventa ipercoerente, impermeabile, inscalfibile. Il delirio non si definisce dal contenuto bizzarro, ma dalla forma: una coerenza interna costruita su presupposti che non possono più essere messi in questione. E questa forma non è un’anomalia assoluta, ma l’estremo di una struttura già normalizzata, il punto limite di un meccanismo che la società stessa accetta e riproduce quotidianamente.

La linea di frattura non passa tra vero e falso, ma tra convinzioni aperte alla revisione e convinzioni irrigidite. Una cultura che insegna ad aderire invece che a verificare, a identificarsi con il senso invece che a sospenderlo, a confondere spiegazione e realtà, genera inevitabilmente alienazione diffusa. La patologia individuale non è l’origine del problema, ma il punto in cui la frattura perde adattività e diventa visibile. Definirla ‘malattia mentale’ significa naturalizzare un esito storico, spostando la responsabilità dall’ordine simbolico all’individuo e occultando la radice culturale che lo ha prodotto e continua a riprodurlo.

La psichiatria cura i crolli, ma non interroga la struttura che li rende inevitabili. Il linguaggio clinico standard registra l’esito, non la genesi. Assume come norma implicita un rapporto sano con la realtà e interpreta la deviazione come patologia individuale. Ma questo presupposto è ingenuo: quel rapporto sano non è la regola, è l’eccezione non tematizzata. La psichiatria non è falsa; è tardiva. Interviene quando la struttura cede, non quando si costituisce.

In sintesi, la vera anomalia non è la schizofrenia, ma una società che scambia la cecità per lucidità, la ripetizione per realtà e il relativo con l’Assoluto. “Schizofrenia ontologica” è vivere nell’inautenticità delle astrazioni mentali e scambiarle per l’Autenticità della Realtà, da cui sono astratte. La cura non è soltanto clinica: è il compito di restituire al pensiero la capacità di distinguere tra realtà e rappresentazione. Solo così la guarigione diventa giustizia ontologica: ritorno al principio in cui ogni ordine umano si misura con l’Assoluto, la Realtà!

Mostafa Milani Amin

Tags

Your Comment

You are replying to: .
captcha