Tuesday 11 November 2025 - 14:31
Ciò che un seminarista deve sapere sulla tossicodipendenza

Il divulgatore religioso, prima di ogni interazione con persone affette da tossicodipendenza, deve possedere una conoscenza chiara della natura di questo fenomeno: dalle tre fasi della tossicodipendenza, alla distinzione tra dipendenza fisica e psicologica, fino al riconoscimento dell’identità reale della persona rispetto a quella alterata dal consumo di sostanze. Questa consapevolezza preliminare è il presupposto indispensabile per un intervento efficace; senza di essa, ogni azione di sostegno rischia di risultare inefficace o persino dannosa.

Agenzia Hawzah News – L’uso di sostanze stupefacenti è una delle sfide più gravi della società contemporanea. Poiché i seminaristi e i divulgatori religiosi sono in contatto diretto con la gente, è indispensabile che conoscano la natura della tossicodipendenza e le modalità corrette di interazione con chi ne è colpito. In questo quadro, l’Hojjatoleslam Emamian – psicologo clinico e consulente specializzato nel trattamento delle dipendenze – ha illustrato i punti fondamentali che un seminarista deve conoscere prima di affrontare un dialogo con una persona affetta da dipendenza.

Le tre fasi della tossicodipendenza

  • Esperienza iniziale e impulso a ripetere: il primo consumo provoca un piacere intenso ma di breve durata, che alimenta la spinta a ripetere l’esperienza.
  • Dipendenza: progressivamente corpo e mente si abituano alla sostanza; senza di essa, le funzioni quotidiane vengono compromesse.
  • Tolleranza e aumento del consumo: l’organismo richiede dosi sempre maggiori per ottenere lo stesso effetto, con ripercussioni gravi su salute, relazioni e vita sociale.

Dipendenza fisica e psicologica

La dipendenza fisica, pur grave, rappresenta solo una parte del problema e può essere trattata con cure mediche.

La dipendenza psicologica è la dimensione più difficile: la sostanza appare come un “rifugio” sempre disponibile, sostituendo relazioni e affetti. Senza un’alternativa affettiva e spirituale, il rischio di ricaduta è altissimo.

Tipologie di consumatori

  • Consumatori di sostanze “nere” (oppio e derivati), più diffusi tra adulti e anziani.
  • Consumatori di sostanze “bianche” (cocaina e metanfetamine), con effetti rapidi e altamente distruttivi.
  • Consumatori di farmaci psicotropi (benzodiazepine, ipnotici), spesso inconsapevoli della dipendenza che ne deriva.
  • Consumatori di cannabis e derivati, che tendono a considerare il consumo un passatempo innocuo, ignari però delle considerevoli conseguenze psicologiche e cognitive nel lungo periodo.

Dipendenti “ordinari” e “dichiarati”

  • Dipendente ordinario: tossicodipendente che conserva ancora legami familiari e sociali, tende a nascondere la propria condizione e può mostrare motivazione al trattamento.
  • Dipendente dichiarato: consuma apertamente in pubblico, ha perso casa e famiglia e rifiuta ogni trattamento.

Per i primi, il seminarista può avviare un percorso di sostegno; per i secondi, è necessario il rinvio a centri specializzati.

L’insostituibile ruolo della disintossicazione

Finché la persona è sotto l’effetto della sostanza, prevale una sorta di “seconda identità” che rende impossibile un dialogo razionale. Il primo passo è sempre la disintossicazione fisica in centri qualificati. Solo dopo questa fase il seminarista può avviare un intervento educativo e spirituale.

Il ruolo della fede e della spiritualità

Fase iniziale: la religione agisce come fonte di motivazione e speranza, restituendo fiducia e senso di valore.

Fase di trattamento e mantenimento: gli insegnamenti religiosi e spirituali diventano strumenti profondi di ricostruzione psicologica e comportamentale.

Esperienze nei centri di recupero hanno mostrato che pratiche come la recitazione della Ziyarat Ashura, le cerimonie di Muharram e Fatimiyya e gli incontri religiosi riducono in modo significativo aggressività e comportamenti autolesivi.

Indagini su oltre mille pazienti hanno confermato che l’86% stabilisce un rapporto di fiducia più forte con divulgatori religiosi rispetto a terapeuti laici.

Malattia o reato?

La tossicodipendenza è innanzitutto una malattia, che richiede comprensione e trattamento. Tuttavia, essa può assumere anche la dimensione di reato quando sfocia in comportamenti che violano la legge, come furti, aggressioni o disturbo dell’ordine pubblico.

Il seminarista deve saper distinguere con chiarezza tra:

  • la persona malata, che necessita di cura, accompagnamento e sostegno educativo;
  • la persona che, oltre alla dipendenza, compie atti criminali, e che pertanto deve essere indirizzata non solo verso percorsi terapeutici, ma anche verso le responsabilità legali previste dalla giustizia.

Questa distinzione è fondamentale per evitare stigmatizzazioni: la dipendenza non annulla la dignità della persona, ma quando si accompagna a condotte criminali richiede un approccio integrato, in cui la dimensione medica e spirituale si affianca a quella giuridica e sociale.

Perché si ricade?

La ricaduta non è un semplice “fallimento”, ma il risultato di fattori complessi che coinvolgono corpo, mente e ambiente sociale. La disintossicazione fisica rappresenta soltanto il primo passo: la vera purificazione richiede invece equilibrio psicologico, stabilità sociale e un percorso spirituale capace di restituire fiducia e senso di valore. È alla luce di questa distinzione che emergono i principali fattori di rischio:

  • pressioni familiari e sociali: accuse ingiuste, diffidenza o mancanza di fiducia generano frustrazione e possono spingere il paziente a tornare alla sostanza;
  • accessibilità delle sostanze: la facilità di reperimento e la presenza di ambienti favorevoli al consumo rendono fragile ogni progresso;
  • assenza di sostegno post‑cura: senza una rete familiare e sociale preparata, il rischio di ricaduta aumenta drasticamente; il paziente ha bisogno di sentirsi accompagnato anche dopo la fase clinica;
  • arresto dello sviluppo emotivo: chi ha iniziato a consumare in giovane età resta bloccato a quel livello di maturità e, dopo decenni di dipendenza, fatica a gestire emozioni e relazioni adulte.

La ricaduta, dunque, non va interpretata come un segno di debolezza, ma come un campanello d’allarme che indica la necessità di un intervento integrato: medico, psicologico, sociale e spirituale. Solo così il percorso di recupero può diventare stabile e duraturo.

Esperienze di successo

Le testimonianze raccolte nei centri di recupero mostrano che è possibile risorgere dalla dipendenza e ricostruire la propria vita. Di seguito accenniamo ad alcune reali esperienze, che rendono evidente come il recupero e il reinserimento siano possibili.

  • Un giovane laureando, caduto nella dipendenza da metanfetamine dopo un fallimento affettivo, ha ritrovato equilibrio grazie a un percorso integrato di cura e sostegno. Oggi, dopo quattro anni di sobrietà, è sposato, padre di famiglia e reinserito nel lavoro.
  • Un ex imprenditore, travolto dall’uso di oppiacei e dalla perdita dell’azienda, ha ricostruito la propria esistenza grazie al sostegno della comunità religiosa. Dopo sei anni di astinenza, è tornato a guidare un’attività e a sostenere altri pazienti nel loro percorso.
  • Una giovane madre, segnata dall’alcolismo e dalla separazione familiare, ha ritrovato stabilità attraverso programmi di cura e accompagnamento spirituale. Oggi vive con i figli, partecipa attivamente alla vita comunitaria e testimonia la possibilità di rinascita.

Indicazioni chiave per i divulgatori

I divulgatori, nel confronto con persone coinvolte nella dipendenza, devono prestare attenzione ad alcuni punti chiave per svolgere un ruolo realmente efficace di aiuto.

  • Focus su educazione e prevenzione – L’energia e l’impegno dei divulgatori e degli attivisti sociali è meglio che siano orientati verso programmi di prevenzione e formazione. Lo slogan «la prevenzione è meglio della cura» trova qui piena applicazione: investire sull’educazione di bambini, adolescenti e giovani permette di evitare che essi entrino nelle fasi acute della dipendenza.
  • Spezzare la “paura del detox” – Molti continuano a consumare non per desiderio, ma per un timore radicato: «se smetto, muoio» o «il mio corpo non reggerà». Questi falsi convincimenti impediscono l’avvio della cura. Aiutare a superare tali paure raccontando esperienze documentate e mostrando prove concrete — che attestano come migliaia di persone abbiano interrotto senza conseguenze permanenti — rappresenta un passo decisivo verso la guarigione.
  • Offrire “alternative sane” – Alcuni pazienti temono che «se lascio la sostanza, non avrò nulla in cambio». In realtà, amore, compassione, accompagnamento e una rete di sostegno possono colmare quel vuoto. Il divulgatore, come consigliere e amico, è decisivo nel generare queste risorse: amicizia autentica e supporto sociale diventano pilastri che proteggono dalla ricaduta.
  • Educare la famiglia e la rete di sostegno – La famiglia e l’ambiente sociale devono essere preparati a offrire un contesto sicuro e solidale al recupero. Il cambiamento dell’atteggiamento dei familiari verso chi è in fase di guarigione è decisivo per la stabilità e la durata del percorso di recupero.

In sintesi, il compito dei divulgatori non si esaurisce nell’offrire consigli, ma consiste nel costruire fiducia, accompagnamento e speranza. Educazione, sostegno affettivo e formazione della rete familiare diventano strumenti concreti per trasformare la fragilità in rinascita. È in questa missione che il divulgatore religioso trova la sua forza: restituire dignità e aprire la strada a un futuro libero dalla dipendenza.

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